Giuseppe Ranalli

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Il volto più innovativo di un imprenditore? Quello umano!

Giuseppe Ranalli, Amministratore Delegato di Tecnomatic

Ho sempre avuto una predilezione per la tecnologia e l’innovazione.

Questo mi ha spinto a laurearmi in economia, con una tesi sull’automazione industriale e, successivamente, a frequentare la scuola di amministrazione aziendale della Fiat.

Nel 1997, all’età di 27 anni, decido di acquistare due PMI in crisi e fare una fusione per incorporazione (Proxima e Tecnomatic), accollandomi un debito di 3,8 miliardi di lire, per rilanciare una realtà nata nel 1973 (Tecnomatic), dando vita a un percorso imprenditoriale differente dal passato: sulle macerie delle due vecchie imprese, cerco di creare le premesse per il rilancio della nuova Tecnomatic Spa, specializzata nella progettazione e realizzazione dei processi produttivi Turn key Sistem per componenti auto quali: turbocompressori, motori endotermici, trasmissioni e motori elettrici innovativi ad alto voltaggio ed efficienza.

Tutto nasce da un’intuizione che potrei definire “alcolica”: una sera, a cena con alcuni collaboratori, dopo una giornata di formazione in aula e sotto l’effetto di un ottimo Montepulciano, pensai di inserire un filo di rame a sezione quadrata nello statore dei motori elettrici, prendendo spunto dal video che ci avevano mostrato i formatori in aula sul problem solving.

Da quella intuizione sono nate le prime famiglie brevettuali sul processo.

Mi sentivo forte, avevo la sensazione di poter fare qualsiasi cosa, anche perché l’azienda cresceva in modo vertiginoso. Nel gennaio del 2008 avevo il portafoglio degli ordini completo e, grazie a questo trend, assumo 30 persone in più. Ma tra giugno e settembre dello stesso anno, le cose cambiano. L’economia si blocca. Scoppia la grande crisi americana e, poi, mondiale.

I clienti smettono di pagare, a fine 2008 l’ammontare delle fatture scadute non pagate supera i 18 Milioni di euro. Impiego le mie risorse personali, utilizzo tutti gli affidamenti bancari per far fronte alle pressioni dei creditori. Dopo breve tempo non c’è più niente da anticipare.

Arriva un’altra crisi, di tipo esistenziale. Per la prima volta mi sento debole, disorientato.

Mi chiudo in me stesso e decido di non rispondere più alle telefonate dei fornitori e degli istituti di credito. Un giorno, forse per reagire allo sconforto, vado a Milano, in una “scuola di comunità”, un momento di catechesi e confronto organizzato da Comunione e Liberazione.

Qui avviene un cambiamento decisivo in me. Mi viene chiesto: «Secondo te qual è il termine contrario al concetto di pace?». Rispondo d’impulso «la guerra». Mi ribattono: «Ti sbagli, è la paura! Perché hai paura? In cosa consisti? In quello che riesci a fare con le tue forze?».

In quel momento, capisco che le paure che mi impedivano di confrontarmi con gli altri sulla mia reale condizione, nascevano tutte dal fatto che la mia consistenza umana, negli anni, si era basata esclusivamente su ciò che ero riuscito a fare. Adesso che la realtà era cambiata e non riuscivo più a farle mi sentivo perso, quindi inconsistente. Fino ad allora avevo messo una maschera, cercando di dissimulare un equilibrio che non avevo più da tempo. Ho fatto tutto il viaggio di ritorno piangendo, ma avevo capito che dovevo togliermi quella maschera, per reagire e tornare alla serenità.

Avevo compreso appieno che non bisognava avere paura della nostra umanità.

Una volta tornato in azienda, per prima cosa rispondo ai fornitori, ammettendo la situazione di difficoltà. Convoco i primi quattro. Ma visto che in totale erano 400, decido di incontrarli a gruppi più numerosi. A tutti i creditori mostro i reparti, la produzione, la progettazione, il portafoglio ordini prima della crisi, i brevetti internazionali. Questo atteggiamento, umile e trasparente, fa breccia non soltanto nei loro animi, ma anche nei loro cervelli. Comprendono di avere a che fare con una persona affidabile, con una visione meritevole di essere supportata. Decido di fare altrettanto con i referenti delle banche, invitandoli in azienda. Nessuno di loro mi nega un aiuto.

A quel punto mancano i dipendenti. Decido di convocarli. Spiego loro come stanno le cose.

Chiedo di razionalizzare tutte le risorse. Decidiamo di riciclare tutto il riciclabile, tranne la carta igienica. Siamo ripartiti da quello che c’era e non da quello che mancava. Nessuno se ne è andato, non ho perso nemmeno una persona. Cosa è accaduto? Grazie alla crisi scopriamo gli errori che stavamo facendo, moltissimi solo miei. Ad essere onesti la crisi ci ha corretto e ci ha salvato! L’azienda riparte, concentrandosi sulla R&D della trazione elettrica. Case automobilistiche come Ferrari, General Motors, Ford e Geely, Great Wall Motors, diventano clienti affezionati. Lo stesso accade con multinazionali come ZF-TRW, Bosch, Continental, Valeo.

Per alcuni realizziamo sistemi di assemblaggio e collaudo, per altri progettiamo e realizziamo sistemi di avvolgimento. «Nei motori del futuro pulsa il cuore verde italiano» recita il pay-off della Tecnomatic; ma dichiararlo non basta, occorre avere fede, in tutti i sensi.

Nel 2018 Tecnomatic conserva il suo quartier generale in Abruzzo, a Corropoli, ma ha filiali in tutto il mondo, dalla Cina al Brasile, dagli Stati Uniti all’India, dal Messico alla Romania.

Si può uscire dalle fauci della crisi solo aprendosi all’altro, sia dal punto di vista umano che professionale. Ai miei clienti, come ai miei amici, ho sempre offerto tutto me stesso, nel bene e nel male. La capacità innovativa ha retto l’urto della crisi anche grazie al fatto che ho re-investito tutto il profitto in azienda, in particolare in ricerca e sviluppo. Oggi siamo arrivati a 46 famiglie brevettuali d’invenzione, sia di prodotto che di processo, per un totale di 345 Brevetti depositati nel mondo, di cui 210 già rilasciati. Abbiamo una collaborazione stabile con il POLO AUTOMOTIVE Abruzzo e con il dipartimento di Ingegneria meccanica, elettronica ed elettrica dell’Università dell’Aquila, con la quale abbiamo fatto una società spin-off, coinvolgendo l’ateneo e otto docenti ordinari. Perché solo posizionandoci sul segmento dell’altissima innovazione possiamo sopravvivere alle crisi ricorrenti.

Lesson learnt: per non perdere e non perdersi, bisogna vivere in uno stato di crisi permanente. Crisi come contraccolpo della realtà, come senso di inadeguatezza rispetto alle sfide che il mondo ci pone, come autocoscienza continua del bisogno profondo di cui siamo fatti, come consapevolezza che la conoscenza è solo dentro una relazione aperta, altrimenti il “già saputo ci blocca e ci soffoca nell’autoreferenzialità”.

Infine, crisi come apertura a tutti i modi possibili dell’essere e del fare “con”.

Lo stato di crisi permanente ci spalanca al mondo intero e mantiene desta la consapevolezza che siamo fatti per condividere se vogliamo essere felici.